Il Castello di S. Bonifacio | The Castle of St. Bonifacio
1 – FONDAZIONE FULDENSE DEL MONASTERO DI SAN BONIFACIO
Il primo documento che cita il castello di San Bonifacio è il famoso testamento di Milone del 955. Prima di questo abbiamo altri documenti. In un passo del “Miracula sanctorum in Fuldenses ecclesias translatorum”, si legge che tra coloro che donarono in Italia un “praedium” (bene immobile) al monastero di San Bonifacio in Fulda vi fu il conte Hadumar (Ademario conte di Verona tra l’806 e l’809). Intorno all’830, su questo lascito, amministrato da un monaco di nome Addo, fu costruito un monastero dipendente da Fulda. Viene anche disposto che in questo luogo rimangano degli addetti (monaci) per gli uffici ordinari. Nel manoscritto n. 141 della biblioteca di stato di Bamberga, esiste la notizia che nell’ 875 nel “..praedio Fuldensis monasterii, quod Monticellum dicitur, iuxta Veronam..” fu tumulato un certo Haganus, importante monaco fuldense, morto nei pressi di Verona. Ora, abbiamo ragione di ritenere che il “Monticellum” di cui si parla in questo documento, altro non sia che la nostra Motta. Infatti chiese dedicate a S. Bonifacio non ne esistono altre nella provincia, un santo oltre tutto inusuale nelle nostre zone. Il nome stesso del paese è unico in Italia. Ma c’è di più, all’epoca considerata, il monastero tedesco di Fulda possedeva diverse pertinenze, frutto di lasciti, in Italia e in particolare in Veneto. Nel testamento di Milone, riportato da F. Ughelli ad un certo punto troviamo: “…atque capella mihi constructa in honore S. Bonifacij…”. Invece nel documento riportato da V. Fainelli quel “mihi constructa”, diventa “inibi constructa”, che nell’economia del discorso assume tutto un altro significato, cioè quello di essere stata già presente e non costruita da Milone.
2- Il CASTELLO DI MILONE DEL 955
Il conte Milone, che già gestiva i beni della corte di Zerpa di proprietà del fratello Manfredo, corte, estesa probabilmente fino all’Alpone, decise di fortificare l’altura della “Motta”, che per la sua posizione tra il comitato vicentino e quello veronese, protetta a Sud e Ovest da ampie zone paludose, lambita dall’Alpone e a poca distanza dalla strada Postumia, doveva apparire come un sito ideale per un impianto castrense. Quasi tutti i “castra” all’epoca si insediarono in aree già abitate, per proteggerle, ma anche per sfruttarne le potenzialità produttive. Il testamento, ad un certo punto dice: “Nec non et alio castro meo cum casa solariata cum sala et caminata atque labia vel uel subtessorar (sic) atque cappella inibi constructa in honore Sancti Bonifatii et foras inibi circuito casis terris pratis silvis cum omnia sicut ibidem habere visus sum et mihi legibus per(ti)net”. Come si può notare Milone si dilunga a sottolineare le caratteristiche abitative della struttura, facendo trasparire anche una certa soddisfazione nell’indicare questa dimora su più piani, con sala e camino, loggiato e annessi rustici. Il nome Motta della località, deriva dalla tipologia di castello molto diffusa nel Nord Europa, che comprendeva una casa d’abitazione fortificata, costruita sul punto più alto di un’altura, ed una “bassa corte”, zona in cui si trovavano le abitazioni e gli annessi necessari per le attività agricole. Il nucleo abitato (in parte lo stesso esistente prima dell’incastellamento), doveva distribuirsi concentricamente in quella terrazzatura, ancora ben visibile, intorno al palazzo signorile (da individuare nell’area ora occupata dal monumento ai caduti). All’esterno della cerchia, un’alta scarpata finiva nel fossato che seguiva l’attuale anello stradale. Dato che si presume che l’Alpone scorresse ad Ovest della Motta, fu per realizzare una protezione efficace nel punto più delicato, cioè a Nord, che il fiume venne deviato nell’attuale alveo. Da allora questo nuovo corso fu continuamente mantenuto efficiente e tale è stato conservato fino ad oggi.
3– IL CASTELLO, RESIDENZA DEI SAN BONIFACIO (X – XI secolo)
Sembra che, almeno inizialmente, il castello avesse carattere più propriamente residenziale. La sua ubicazione possedeva una serie vantaggi: prima di tutto si trovava in territorio di confine. La Motta era posta in comitato vicentino visto che allora l’Alpone ne rappresentava il confine, fu infatti, solo dopo la pace di Fontaniva del 1147, che i confini tra i due comitati furono modificati, mentre le diocesi rimasero invariate. Se tuttavia il corso dell’Alpone costituiva il confine tra i due comitati, non si capirebbe perché la Motta fosse considerata in territorio vicentino. Evidentemente il corso dell’Alpone di allora doveva transitare a ovest della Motta in un’area, che ancora oggi, si trova ad un livello più basso. È chiaro che il corso attuale deve essere di natura artificiale e che la diversione avvenne nei secoli in cui funzionò il castello, ciò allo scopo di creare una ulteriore difesa all’impianto castrense, costituendo il classico fossato che circondava il castello. Di tale fossato, venuta meno la funzione difensiva, si mantenne solo la parte orientale. La dislocazione poi, presso un confine e una strada di grande importanza come la Postumia, poteva offrire la possibilità di controllo sulle comunicazioni. Ma alla scelta della Motta seguì un altro fatto fondamentale, sia per i discendenti di Milone, che per il borgo che si stava formando. Adalberto, re d’Italia (poco prima di essere destituito dall’imperatore Ottone I°) donò tra il 960 e il 961 a Egelrico I° (nipote di Milone e a lui succeduto come conte di Verona) e ai suoi eredi, la cosiddetta “terra mortuorum”. Si tratta del diritto di succedere, al posto del fisco, nelle terre e nei beni di persone morte senza eredi, in una vasta zona, nel comitato veronese, attorno a San Bonifacio. Questa area rappresentava la parte nord – orientale del comitato veronese delimitata a nord dalla Valpantena fino alla Val d’Alpone, a sud dal corso dell’Adige fino all’Alpone. Probabilmente a causa dei massacri degli ungari, “la terra mortuorum” doveva essere assai estesa e la possibilità di appropriarsene poteva costituire un ulteriore elemento di interesse per la localizzazione dell’insediamento castrense che non doveva essere sfuggito a Milone. Solo i suoi discendenti riuscirono a ufficializzare il possesso di quei beni (che forse già Milone utilizzava) con un placito. Tali possedimenti, assieme a quelli già detenuti da Egelrico I°, che oltre all’eredità di Milone possedeva anche i beni avuti dal padre Manfredo III° (come la Zerpa), data la notevole estensione, resero il territorio gravitante sul castello di San Bonifacio una sorta di giurisdizione indipendente, all’interno del comitato veronese. Infatti, dopo qualche tempo, proprio da quei beni fondiari deriverà ai signori del castello il nome e il titolo di conti di San Bonifacio.
4– LA LOTTA TRA LE FAZIONI NEL XIII secolo
Nella prima metà del 1200 il nostro castello svolse un ruolo spesso di primo piano nelle cruente vicende dell’epoca. Nell’ultima parte del XII° secolo, i San Bonifacio sostennero la carica di podestà di Verona. Evidentemente la loro influenza era favorita dalla loro capacità economica, dalla tradizione della funzione comitale e dai rapporti di parentela e di amicizia con le principali famiglie. Nel 1205 si registrarono violenti scontri in città e nel territorio di San Bonifacio che venne devastato presumibilmente dai “Monticoli”; in questa occasione fu assediato anche il castello. Nel maggio del 1206 Azzo d’Este (della fazione dei “Conti”) fu proclamato podestà di Verona, ma nel 1207 fu dapprima espulso (nel mese di giugno dai “Monticoli” aiutati da Ezzelino il Monaco) e quindi (settembre) reintegrato nella sua funzione dopo aspra battaglia, mentre i “Monticoli” prendevano per sei anni la via dell’esilio. Estensi e San Bonifacio parteggiavano in quegli anni per il futuro imperatore Federico II° contro quello attuale Ottone IV°, ma il loro partito subì un disastro nel 1212 con una dura sconfitta militare presso Lonigo e con la contemporanea scomparsa dei loro due massimi capi: Azzo d’Este e Bonifacio V°. Nel 1230 i “Monticoli” con Ezzelino occuparono Verona, cacciarono gli avversari elessero un loro podestà e si dichiararono filo-imperiali. Gli esuli si ritirarono nel munito castello di San Bonifacio dove elessero il proprio podestà e da dove chiesero aiuto ai Rettori lombardi. Fu grazie all’intervento di questi che i prigionieri furono rilasciati e la pace fu siglata nel castello di San Bonifacio il 6 luglio del 1231. Ma la pace fu di breve durata, l’anno successivo Ezzelino con un colpo di mano, si fece anche mandare un aiuto in truppe (invero modesto) da Federico II° e tenne Verona. L’avvicinamento tra Ezzelino e Federico II° diventava sempre più stretto, infatti mentre al primo conveniva parteggiare per l’Imperatore perché, dentro di sé, mirava a diventarne una specie plenipotenziario per la Marca (con mire di espansione della stessa), Federico II° pensava di usare Ezzelino contro il suo vero obbiettivo che erano i Comuni Lombardi, tuttavia egli voleva anche mantenere buoni rapporti con gli altri Signori ipotizzando una pacificazione del territorio veneto. Nel 1233 un fatto di una certa importanza coinvolse i vari contendenti. Frà Giovanni da Schio riuscì ad organizzare un grande convegno di pace a Paquara al quale parteciparono circa 400.000 uomini di tutte le città vicine, con i loro Carrocci e in cui i capi si giurarono pace; tra le altre cose si determinò che il conte Rizzardo di S. Bonifacio e il suo partito, potessero rientrare liberamente in Verona, da dove erano stati espulsi. La pace durò poco, l’anno successivo (1234) vi furono nuovi tumulti con il conseguente nuovo esilio di Rizzardo, seguirono ampie devastazioni e una nuova riappacificazione (1235) con il San Bonifacio riammesso in città per i buoni uffici di alcuni legati pontifici complice un accordo tra Federico II° ed il papa. Con l’inizio del 1236 Rizzardo fu nuovamente cacciato da Verona, ma nello stesso anno finalmente l’imperatore Federico II° scese a Verona rifornendo adeguatamente Ezzelino di uomini e di mezzi. Ora Ezzelino aveva le forze per assoggettare la Marca, ma anche per levarsi l’impiccio del castello di San Bonifacio. Come vedremo l’assedio del 1237 non andò a buon fine per il da Romano a causa della volontà dell’imperatore di mantenersi ancora la fedeltà dei San Bonifacio, degli Este e delle altre famiglie importanti della Marca. Tuttavia la scomunica lanciata da papa Gregorio IX contro l’imperatore fece precipitare le cose, infatti il Rolandino racconta che nei primi giorni di giugno del 1239, l’imperatore con un seguito formato dal marchese Azzo VII d’Este, Ezzelino III, Rizzardo e gli altri grandi della marca, una cinquantina circa di persone, si stava spostando a cavallo dal trevigiano verso la Lombardia, “.. giunto ai confini di San Bonifacio, uno dei familiari di Federico, posta la destra al proprio collo e guardando verso il marchese, fece il segno del taglio della testa; infatti amava il marchese e la sua parte..”. Dato il pericolo, il marchese informato Rizzardo e i suoi amici, entrò con essi nel castello di San Bonifacio e qui rimase. “..L’imperatore mandò Pier della Vigna a richiamare il marchese e i suoi, dicendo che dava assicurazione al marchese a al conte e a tutti i loro amici e aggiungendo che voleva rappacificare il conte e tutti quelli della sua parte con quelli della parte avversa e porre il conte e i suoi in Verona..”. Ricevutone un diniego, Federico prese in ostaggio alcuni della parte del conte e Rinaldo, figlio del marchese d’Este, i quali si erano attardati e non avevano raggiunto gli altri al sicuro nel castello, fece anche per sicurezza presidiare il passaggio per la Germania alla Chiusa di Rivoli, dimostrando così l’avvenuto strappo con i dissidenti. Il 13 giugno 1239 ordinò a Pier della Vigna, il cancelliere imperiale, di proclamare, in piazza davanti a S. Zeno il bando dell’impero contro Rizzardo di San Bonifacio, Azzo VII° d’Este e le altre principali famiglie Guelfe della Marca e di Ferrara. Era la guerra totale, il bando che colpiva i nemici dell’impero poteva essere tradotto nella possibilità di distruggerli fisicamente oltre alla confisca dei beni che questi possedevano. Ezzelino intanto imperversava; nel 1242 prese i castelli di Montecchio Maggiore, Montagnana, Bolca, Vestena, Villimpenta, nel 1243 dopo aver preso Arcole fu finalmente la volta del castello di San Bonifacio. Di quest’ultimo atto, ciò che è interessante qui sottolineare è la precisa volontà di Ezzelino di annientare questo castello, impresa già tentata e non riuscita in altre occasioni. La sua distruzione serviva alla sicurezza di Verona da est, perché esso rappresentava la base militare da cui partivano gli attacchi dei nemici di Ezzelino verso la città ed era il luogo in cui questi si rifugiavano sicuri, dopo ogni incursione. Questo fu il clima in cui si produsse l’assedio del nostro castello; esso da residenza padronale si era trasformato in centro di signoria rurale e dopo una fase in cui servì da rappresentanza eccolo trasformato in poderoso arnese da guerra.
5– LA PRESA DI EZZELINO DEL CASTELLO DEL 1243
Eccoci dunque all’atto finale. Federico II° col bando ai vari signori locali, fra cui i San Bonifacio, dovette puntare tutte le sue carte su Ezzelino che diventò in questa fase il campione dell’impero. Così egli ebbe finalmente la possibilità di concretizzare il progetto di eliminazione del castello di San Bonifacio, da sempre intralcio al suo dominio sulla Marca. Il 16 di settembre del 1243, quindi, con l’aiuto di vicentini e padovani, pose il campo sotto il castello di San Bonifacio e, come ci racconta il saraina, “gli diede grossi assalti da dui canti” fino alla resa. Dopodiché “fece per i soldati uguagliar a terra” cioè radere al suolo. Fu un evento importante vista la possente munizione difensiva cui il maniero era dotato e anche perché la caduta del castello, associata all’interdetto imperiale, significò per la famiglia dei San Bonifacio la perdita della propria sovranità nel territorio. Il rolandino nella sua Chronica, ci narra che Ezzelino con tutta la milizia Padovana, duemila fanti e anche con Veronesi e Vicentini “.. posuit se et gentem suam circa castrum Sancti Bonifacii..”; il castello era difeso da Leonisio, figlio giovinetto del conte Rizzardo (in quel momento a Mantova). Il moscardo racconta che l’assedio era molto stretto, tanto che “..non potesse uscir’alcuno..” e che “..tutti gl’assediati sarebbero restati, o uccisi, o prigioni..”. Leonisio, che era pronto alla difesa, sapendo di non poter ricevere aiuto da suo padre bloccato a Mantova, capita l’inutilità di ogni resistenza, accettò di trattare con una delegazione di religiosi e di altre persone neutrali mandategli da suo zio che gli offriva la possibilità di salvarsi e di potersene andare con la sua gente e le proprie cose. Leonisio accettò l’accordo e come narra ancora il Rolandino “…descendens de loco stetit sub tentorio Ecelini…” cioè scese dal castello e stette sotto la tenda di Ezzelino. Questi gli dimostrò molta familiarità e gli assegnò perfino una scorta per potersene andare sicuro. Questa vicenda evidenzia un’umanità generalmente non attribuita ad Ezzelino che viene sempre dipinto come un personaggio spietato e privo di ogni scrupolo. Andatosene Leonisio, “…Ecelinus destrui fecit castrum Sancti Bonifacii…” cosa riportata da tutti i cronachisti posteriori a rolandino patavino, come definitiva distruzione. In realtà continuando a leggere la Chronica troviamo che Ezzelino fece “…tota destructione qua potuit…” cioè si limitò a rendere inservibile la struttura. Infatti l’ordine di annientamento del castello di San Bonifacio assieme a quello di Arcole fu dato solo nel 1276 (cioè ben 33 anni dopo, quando Ezzelino era ormai morto da un pezzo) da Alberto della Scala che dette mandato al podestà di Verona di far lavorare mille operai per dieci giorni alla demolizione. Gli statuti Albertini contengono una serie di ordini per lavori di riorganizzazione territoriale vista per la prima volta nel suo complesso. L’abbattimento di quanto restava del castello dei San Bonifacio rientrava negli accordi di pace con Padova in cui era stabilito che le fortificazioni a sud della Postumia andavano abbattute. Rimanevano i presidi a nord il castello di Soave e quello di Illasi. Tuttavia crediamo che questa disposizione rimase inevasa, perché negli statuti del 1327 si trovano gli stessi ordini ripetuti.
Oggi di questo possente bastione non rimangono che pochi resti, che oggi forse ci svelano qualcosa. Non è chiaro chi operò la demolizione che dovette comunque avvenire perché le macerie riempirono il fossato e rialzarono il terreno avanti la chiesa di circa un metro e mezzo. La distesa di rovine fu utilizzata per secoli come cava di materiale da costruzione dai sambonifacesi e ancora oggi tutte le vecchie costruzioni del paese contengono i caratteristici blocchi di basalto che costituivano la cinta del castello. È difficile rendersi conto di quello che significava il castello di San Bonifacio, che fu per almeno tre secoli uno dei più importanti punti di riferimento della Marca, sia dal punto di vista difensivo che politico. La storia di quegli anni ruotò attorno a questo territorio, la dimostrazione di ciò sta nell’attenzione con cui i cronachisti dell’epoca ne riferirono. Con la caduta del castello si perse nei secoli il ricordo dell’importanza di quegli avvenimenti; la Motta oggi può apparire come un cucuzzolo senza storia, occorre invece rivalutare questo patrimonio attraverso la conoscenza, lo studio e la ricerca.
Work in progress …